"La prima stanza del parto naturale in Italia: intervista a Barbara Grandi"

Intervista

Dalla prima stanza del parto naturale negli anni Ottanta alle attuali campagne contro la medicalizzazione del parto. L'impegno di un medico che ha voluto cambiare la concezione della nascita in Italia. Contro gli ospedali "bambinifici", per restituire fiducia alla donna e alla natura.

  • 14/11/2016

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Ginecologa e Omeopata

Barbara Grandi è ginecologa e omeopata. Nel 1984 ha messo in piedi la prima stanza del parto naturale in Italia, presso l'Ospedale di Poggibonsi, tra Siena e Firenze, dove poi ha lavorato per quasi trent'anni. Da alcuni anni è in pensione, ma non ha mai smesso di lavorare per promuovere la cultura del parto attivo, tiene corsi e seminari per il parto naturale, insegna yoga alle donne in gravidanza, assiste, anche con l'associazione "I melagrani" di cui è presidente, chi desidera partorire in casa.

Barbara ci racconta degli anni della formazione a Trieste, dei primi anni in ospedale dove le partorienti erano quasi in una catena di montaggio, ciascuna nel suo lettino, da sole, senza potersi muovere, con il monitoraggio sempre attaccato. "Si poteva spingere nel periodo espulsivo solo sul lettino da parto, l'episiotomia veniva praticata a tutte. Ai  papà era impedito essere presenti, i bambini venivano subito allontanati dalla mamma, un inferno."

Poi i viaggi alla ricerca di altre possibilità: in Francia a Pithivier, dove era attivo Michel Odent, uno dei principali riferimenti ancora oggi per il parto naturale, in Olanda, dove il parto in casa non ha mai smesso di essere una concreta possibilità, in Inghilterra, dove c'erano manifestazioni di donne che reclamavano il diritto al "parto verticale" (cioè non sdraiate su un lettino) e il sistema sanitario si è fatto carico di lasciare alla donna il diritto di scegliere come partorire, se in casa, in ospedale, in case del parto. E questo, è dimostrato da molti studi, funziona molto meglio. Per la donna, per il bambino, e per i conti pubblici.

Finalmente poi a Poggibonsi, e nel 1984 si creano le condizioni per realizzare il sogno di una stanza del parto naturale, dove l'atmosfera è intima, la donna si può muovere con libertà, può avere intorno chi vuole, con lei c'è l'ostetrica che è l'esperta della fisiologia e l'accompagna con dolcezza rispettando i suoi bisogni e si dà fiducia al  sapiente e meraviglioso meccanismo del parto, che nella maggior parte dei casi non necessita alcun intervento medico. Negli anni successivi verrà introdotta una grande vasca per il travaglio e il parto in acqua.

Barbara, ci racconti come sei riuscita a mettere in piedi la realtà di Poggibonsi, primo caso in Italia e per molti anni un faro per chi voleva un parto naturale?

Arrivai a Poggibonsi nel 1982, mi piaceva la campagna, e trovai lavoro in questo piccolo ospedale.
Nel 1984 si crearono le condizioni per creare la stanza del parto naturale, c'erano un paio di persone che lavoravano lì che erano sensibili alla questione, e ci riuscimmo. Fu la prima in Italia. Tutti contro, la consideravano una cosa pericolosa, ma il punto è che creavo una zona protetta fuori dall'intervento dei medici, una scuola anche per le ostetriche per acquisire autonomia, per sentirsi libere di accompagnare le donne alla pari, fuori dalle dinamiche di potere del rapporto col medico. Un modo per avvicinarsi ai bisogni veri delle persone, anche accogliendo gli uomini a poter essere d'aiuto alle loro compagne.

Poi le realtà per il parto naturale si sono diffuse, soprattutto nel nord Italia e un po' nel centro.

Dietro questo eccesso di medicalizzazione del parto, c'è un errore di fondo nella formazione dei giovani medici?
L'università non ha saputo adattarsi ai cambiamenti, alle conquiste scientifiche dei nostri tempi. E' molto orientata verso la tecnologia, anzi, c'è un'infatuazione per la tecnologia, ma per quanto riguarda un'apertura del pensiero alla complessità, siamo indietro. Si esaspera una tendenza meccanicistica a separare le parti del corpo, quando invece sappiamo quanto sia più complessa l'origine delle patologie, ma non insegniamo agli studenti a ricercare questa complessità.
Io occupandomi della nascita mi rendo conto che c'è ancora una fiducia enorme che l'intervento medico in sé possa migliorare le cose. Che si possa far qualcosa per aiutare la donna. Questo fa parte di una visione patriarcale per cui la donna è considerata un essere debole, che ha bisogno di aiuto, di controllo. Si pensa sempre di poter aiutare la natura, di facilitare la donna perché ne ha bisogno, quando invece intervenendo disturbiamo il meccanismo che la natura ci ha dato per salvaguardare la nostra specie, per far nascere bambini non solo non malati, ma che possano entrare bene in relazione con la mamma, perché se gli equilibri ormonali della neomamma non vengono alterati, lei è innamorata del suo bimbo e sa superare al meglio le fatiche che la nuova condizione comporta.

E poi l'altra cosa terribile di questi tempi è la paura. Ce l'hanno gli operatori, ce l'hanno le donne. Paura delle conseguenze, anche legali. Si alimenta la paura, e dalla paura nasce il controllo.
L'università dovrebbe formare su questi fronti, dovrebbe insegnare a ricercare la complessità, dovrebbe dare degli strumenti relazionali, e insegnare a dare fiducia e non solo a controllare le persone.

Cosa sta accadendo in questo periodo in Italia sul fronte del parto naturale?
La scorsa primavera c'è stata la campagna sui social #bastatacere, Osservatorio sulla violenza ostetrica, per rendere visibili le situazioni presenti in molte sale parto, estrema conseguenza della cultura del controllo di cui stiamo parlando. E con il Movimento Sostenibilità e Salute, stiamo lavorando per cambiare in tutta Italia la situazione della nascita e della maternità. C'è dibattito, c'è fermento, ma l'aspetto fondamentale è che le donne devono informarsi, chiedere, protestare. Nulla cambia se non sono loro ad attivarsi.

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